Il Covid-19 ha rivoluzionato le nostre vite sociali e lavorative. Per limitare la diffusione del virus, le istituzioni hanno imposto delle restrizioni sociali per poi decidere per un lockdown generale in attesa di alleggerire la pressione sugli ospedali già oberati di lavoro. Il 21 marzo, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncia la chiusura di tutte le attività produttive non essenziali o strategiche. Il giorno successivo viene firmato il decreto e lo stop, salvo alcune eccezioni, viene prolungato fino al 3 maggio 2020. Una decisione che punta ad inasprire le misure di contenimento e che coinvolge gran parte delle imprese sul territorio nazionale.
Milioni di imprese ferme
1 impresa su 2 in Italia è stata costretta ad interrompere l’attività, se non si prende in considerazione il comparto agricolo. Ciò significa che 2 milioni 100 mila unità, il 47,3% del totale, hanno dovuto sospendere la produttività. Sono dati che emergono dal policy brief “Covid-19: misure di contenimento dell’epidemia e impatto sull’occupazione”svolta da INAPP (Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche). I settori che non sarebbero stati coinvolti nelle restrizioni sono quelli legati alla pubblica utilità e cioè energia, elettricità, smaltimento dei rifiuti, istruzione, sanità e attività finanziarie ed assicurative. I settori invece maggiormente penalizzati sono le aziende artigiane (55,3%) e alberghi e ristorazione (92,9%). “Dai dati analizzati – ha spiegato il professor Sebastiano Fadda presidente dell’INAPP – si ricava che sono soprattutto le micro e piccole imprese ad essere più colpite dalle misure di sospensione dell’attività produttiva. Queste, peraltro, per molte ragioni, incontreranno maggiori difficoltà nel sopravvivere a un periodo prolungato di assenza di fatturato e meritano pertanto particolare attenzione nella predisposizione di adeguate misure non solo per garantirne la sopravvivenza, ma anche per assicurarne la ripresa”. I dati delle imprese sospese decrescono con la dimensione aziendale: a fronte di una incidenza complessiva pari al 55,3%, risultato sospese il 66,7% delle imprese senza addetti mentre solo il 33,8% delle grandi imprese, con oltre 250 addetti, risultano interessate dalle misure di restrizione.
Difficoltà a livello nazionale
Il Rapporto del Centro Studi di Confindustria, pubblicato il 31 marzo, poi, presenta le previsioni per l’economia italiana nel 2020 e 2021. L’analisi si basa sull’ipotesi che la fase acuta dell’emergenza sanitaria si vada esaurendo alla metà del secondo trimestre dell’anno. In caso contrario, le stime del CSC dovranno essere valutate al ribasso. E’ chiaro a tutti che nel 2020 ci sarà un calo del PIL , il report del CSC prevede un -6%, un crollo superiore a quello del 2009 e del tutto inatteso ad inizio anno. “Ogni settimana in più di blocco normativo delle attività produttive – si legge sul sito di Confindustria – potrebbe costare una percentuale ulteriore di Prodotto Interno Lordo dell’ordine di almeno lo 0,75%”.
Le previsioni di Confindustria devono essere ricalcolate a fronte della proroga delle misure di restrizione fino al 3 maggio, firmata il 10 aprile scorso.
Ripercussioni negative sul mercato domestico
Il 76% delle imprese italiane, si apprende da un’analisi di Bva-Doxa, ha avuto impatti negativi immediati con lo scoppio dell’emergenza Covid-19 in Italia. Per 2 aziende su 3, inoltre, ci saranno ripercussioni negative sulla domanda di prodotti e servizi a livello nazionale con un calo di almeno il 10%, per il 45% delle attività. Resta ancora incertezza invece sull’evoluzione dei mercati internazionali ma il 43% si attende di dover affrontare ripercussioni anche sull’export.
Come già detto ad esprimere maggiori preoccupazioni sono le PMI.
La maggior parte delle imprese, inoltre, prevedono tagli agli investimenti soprattutto per i settori marketing e comunicazione, tuttavia 1 azienda su 4 è pronta a rilanciarsi attraverso un’azione mirata di comunicazione. Si continuerà poi a rafforzare la digitalizzazione e lo smartworking sarà utilizzato in maniera massiva. (Leggete il nostro articolo dedicato a come ottimizzare il lavora da casa.)
Come cambierà il modo di lavorare
E’ tangibile l’urgenza di riaprire imprese e aziende, anche per non rendere ancora più evidente che l’emergenza sanitaria del Covid-19 sia anche un’emergenza economica. Il coronavirus è però una pandemia e la priorità deve essere sempre la salute dell’individuo. Per questo motivo si stanno valutando norme e indicazioni per un rientro all’attività in sicurezza. Il Politecnico di Torino ha elaborato, con la consulenza di una task force di esperti tecnico-scientifici delle università piemontesi e di altre università e centri di ricerca, una serie di linee guida da consegnare ai decisori politici per far ripartire il Paese in sicurezza. L’obiettivo del progetto ‘Imprese aperte’ è stabilire un quadro di riferimento procedurale, organizzativo e tecnologico volto a minimizzare le probabilità di trasmissione del contagio tra persone che non presentano sintomi, così da consentire un rientro controllato, ma pronto sui luoghi di lavoro e di aggregazione sociale. E dallo studio emerge che ogni mese le imprese italiane utilizzeranno 960 milioni di mascherine, 465 milioni di guanti e 250 mila cuffie. Saranno necessari 175.000 termometri a infrarossi per verificare lo stato di salute di coloro che si presenteranno sul luogo di lavoro. L’igiene e i dispositivi di sicurezza saranno imprescindibili e si stima che saranno necessari 9 milioni di litri di gel igienizzante. Per evitare assembramenti si consiglia di scaglionare gli orari di ingresso ed uscita dei luoghi di lavoro e si invita ad usare le scale e non l’ascensore. Per un periodo dovranno essere eliminate le zone di coworking e devono essere preferite le videoconferenze e lo smartworking.
Nelle mense, infine, non sarà possibile sedersi faccia a faccia con il commensale e quando non sarà possibile fare altrimenti devono essere installate delle barriere “antirespiro” in plexiglass.